ALCUNE (10) TRA LE PIU' BELLE  STORIE e/o LEGGENDE SICILIANE

             TITOLO:                             Località  in cui avvenne il fatto:

1) LA VITA  E  I  MIRACOLI  DI   S.ROSALIA                               PALERMO

2) LE  ORME  E  LA  STORIA  DI  S.AGATA                                     CATANIA

3) IL  RATTO  DI  PROSERPINA                                               ENNA  e SIRACUSA

4) LA  LEGGENDA  DI  ARETUSA                                                       SIRACUSA

5) LA  LEGGENDA  DI  DAFNI                                                 RAGUSA  e  CEFALU' (PA)

6) LA  STORIA  DELLA  BARONESSA  DI  CARINI                       CARINI (PA)

7) STORIA E LEGGENDA DEI VESPRI SICILIANI          PALERMO,MESSINA 

                                                                                              e CHIARAMONTE GULFI (RG)

8) LA  LEGGENDA  DI  RE  ARTU'                                      ETNA

9) IL RACCONTO RIGUARDANTE  "Compare Alfio, Turiddu e le corna del diavolo"

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Prima pagina del sito


La  vita e  i  miracoli  di S.Rosalia, Santa Patrona di  Palermo

S.Rosalia, il cui nome è l'insieme di due fiori, la rosa e il giglio (in latino: rosa-lilium).  Il suo profumo, simile alla combinazione dei suddetti fiori, iniziò a divulgarsi quando fu scoperto il suo corpo, il 15 luglio 1623, all'interno di un masso concavo di roccia compatta, alla profondità di circa 50 cm, nella grotta del Monte Sacro di Palermo, dove la santa aveva trascorso parte della sua vita.   S.Rosalia nacque nel 1140. Suo padre, di nome Sinibaldo, era un feudatario, vassallo della casa regnante e padrone delle terre della Quisquina e delle Rose. Rosalia fu educata nella reggia dei Normanni di Palermo dove divenne damigella d'onore della regina Margherita, figlia del re Garzia di Navarra. All'età di 13 anni abbandonò agi e ricchezze, preferendo la solitudine e la povertà, anche se i suoi genitori avevano già deciso di farla sposare con il cavaliere Baldovino che si era invaghito di lei.   Un giorno le apparve il volto di Cristo che provocò in lei la totale dedizione. Si ritirò prima nel Monastero di Santa Maria De Grupta, e divenne monaca. Dopo scelse l'eremitaggio. Si allontanò dal Monastero e si addentrò nelle grotte del Quisquina, in una zona solitaria e molto impervia, dove rimase per molti anni, pregando e dove, conosciutala, la gente andava per chiedere conforto per i suoi dolori. Si comportava come il Santo Pellegrino, noto ai Palermitani perchè li aveva convertiti al Cristianesimo nel I secolo d.C.    Anche S.Pellegrino si era trasferito, per trascorrere il resto della sua breve vita, in eremitaggio pregando e privandosi di tutto in una grotta dell'attuale Monte Pellegrino in Palermo.   S.Rosalia dormiva per terra, si cibava dell'erba che trovava e beveva l'acqua che gocciolava dalle rocce della grotta. Pregava e parlava con Dio del quale aveva frequenti visioni.  Dopo la sua morte, che avvenne il 4 Settembre del 1175, all'età, quindi, di soli 30 anni, i palermitani cercarono invano il suo corpo.     Il suo primo miracolo risale al 1348 quando quando nel paese di Bivona scoppiò una epidemia di peste. La Santa apparve in visione ad una fanciulla alla quale promise che avrebbe liberato il paese dalla peste se fosse stata costruita una chiesetta da dedicare a lei. La gente non credette alla ragazza e la peste continuò a mietere vittime, sino a quando l'anno successivo S.Rosalia apparve ad un adulto al quale chiese di nuovo quanto richiesto alla fanciulla l'anno primo. La popolazione credette all'uomo e si costruì una chiestta in suo onore. Subito dopo cessò la peste. Questo stesso miracolo avvenne nel 1474 e nel 1575. Da allora si attribuirono alla Santa altri miracoli quali il ritorno della parola ai muti, guarigioni inspiegabili di malati etc.    Un altro importante miracolo avvenne il 26 Maggio 1623, giorno della Pentecoste. La città di Palermo era stata colpita dalla peste. Tantissimi palermitani si recarono nella grotta di S.Rosalia. Alcuni di loro cominciarono a bere l'acqua che sgorgava dalle rocce e tra queste persone vi era Girolama Lo Gatto.  Ad un tratto S.Rosalia apparve a lei e le chiese di far scavare la roccia in un determinato punto dove, diceva, era nascosto il suo corpo. I lavori di scavo durarono sino al 15 Luglio, quando apparvero i resti della Santa, con fuoruscita di meravigliosi profumi di rose e di giglio. La peste in Palermo cessò solo in parte nel momento in cui i cantori e la gente, durante una processione, supplicarono S.Rosalia.  La peste fu debellata completamente nel 1625 in seguito ad un nuovo miracolo. Il palermitano Bonelli Vincenzo, al quale era morta la moglie quindicenne con la peste, si era recato sul Monte Pellegrino per cercare distensione al suo dolore. Decise quindi di suicidarsi gettandosi da una rupe, quando gli apparve S.Rosalia che convinse l'uomo a seguirla nella sua grotta dove indicò il posto dove era stato rinvenuto il suo corpo e lo supplicò di portare in processione le sue ossa, in modo da far cessare la peste. Non appena la salma fu riconosciuta con quella della Santa e fu portata in processione, la peste cessò definitivamente. La Festa di S.Rosalia ricorre annualmente il 4 Settembre, giorno della sua morte. In tale giorno vi è una grandissima festa a Palermo.


Le orme e la storia di S.Agata,   Santa Patrona di Catania

Il fatto avvenne nel 250 d.C a Catania. S.Agata, era figlia di un nobile possidente, bella e di buoni costumi. Appena sbocciò la sua giovinezza si promise a Gesù. Quinziano,console romano a Catania, chiese in sposa Agata della quale era stata colpito per la bellezza e la ricchezza. Agata, però, rifiutò e Quinziano, allora, la fece arrestare e l'affidò in custodia ad una donna perversa, di nome Afrodisia. Questa donna cercò, per ordine di Quinziano, di pervertire Agata con minacce ma non vi riuscì. Il console,allora, la denunciò al Tribunale come cristiana. In quel periodo i Cristiani subivano le persecuzioni. Il giudice tentò di ravvederla, ma, avendo constatato che non riusciva nel suo intento, decise di infliggerle un supplizio e la flagellazione. Agata resistette alle frustate e fu colpita da punte di ferro che le causarono delle piaghe nel corpo. Mentre era sottoposta al passaggio sulla brace, ella pregava e sembrava che i suoi bellissimi occhi chiedevano pietà per i suoi carnefici. Il giudice, ancor più infuriato, ordinò che le fossero tagliati i seni ma, ancora una volta, Agata non cedette e fu riportata in cella. Durante la notte successiva, mentre Agata soffriva le apparve un vecchio, che era l'apostolo Pietro, che le disse che l'avrebbe guarita. Così Agata, per miracolo,  fu risanata di tutte le piaghe e mutilazioni. Quando, il giorno dopo, Agata fu riportata davanti al gidice, riaffermò che la sua fede era ancor più aumentata ed era più forte della pietra sulla quale poggiava il suo piede. Nel momento in cui disse quest'ultima frase la pietra si affossò sotto i suoi piedi e conservò le sue impronte. Subito dopo il giudice ordinò di far rotolare il corpo nudo di Agata sopra un letto di brace. Mentre la donna soffriva pene atroci ed era tutta ustionata, ma non emetteva alcun grido vi fu una forte scossa di terremoto che fece crollare una parte dell'edificio e furono seppelliti due carnefici, l'Etna iniziò ad eruttare lava e Agata moriva invocando Dio. Con questo atto tutti i catanesi si convertirono al Cristianesimo. Un brutto destino attendeva il console Quinziano: mentre confiscava i beni di Agata annegò nel fiune Simeto inghiottito da improvvisi gorghi  sulla sua barca. Si racconta che sino ad oggi il 5 Febbraio, anniversario della morte della Santa,  festa di S.Agata a Catania, si creino gorghi nel fiume Simeto e si sente un urlo disperato di Quinziano  e il nitrito del suo cavallo.   

 

    


Il  ratto  di  Proserpina

Il fatto avvenne ad Enna,il capoluogo di provincia più alto d'Italia (931 metri sul livello del mare). Grazie alla sua altitudine il popolo sicano, che ivi stanziò,potè respingere tutti gli attacchi venuti dai Siculi. Sino ai tempi dei Romani vi esistevano i templi di Cerere e di Proserpina e si venerava la dea Cerere , simbolo del grano.  Si racconta che il dio degli inferi, Plutone, un giorno decise di uscire dal sottosuolo per visitare il mondo con il suo cocchio trainato da 4 cavalli. Uscì dalla terra in una bellissima pianura a pochi chilometri da Enna, l'attuale Pergusa, lago ceruleo, alimentato da ruscelli armoniosi, con fiori che emanavano fantastici profumi e con uccelli che cantavano meravigliosamente. Plutone era molto meravigliato perchè mai aveva visto tutte quelle meraviglie. Improvvisamente vide in un prato alcune belle fanciulle che raccoglievano bellissimi fiori. Plutone rimase incantato guardando una di esse che poteva paragonarsi ad un giglio flessuoso. Il dio la fissò e subito si innamorò di lei.  Corse verso di lei ma il suo volto nero e molto grande e i suoi occhi di fuoco atterrirono la fanciulla che fuggì insieme alle compagne gridando. Plutone cercò di convincerla a fermarsi dicendole di volerla solo amare. La ragazza, di nome Proserpina, invece di fermarsi aumentò la sua corsa invocando il nome di sua madre Cerere. Plutone, però, la raggiunse, l'abbracciò voracemente e l'appoggiò sul cocchio. Ciane, amica di Proserpina, tentò di fermare i cavalli  e Plutone, infuriato, la trasformò in fonte. Oggi le acque della fonte Ciane scorrono tra i papiri sino alla città di Siracusa (se ne parla anche nel Giro Turistico di Siracusa, nel presente sito web: In basso è presente una relativa foto).

   La madre di Proserpina, Cerere, cercò sua figlia in tanti luoghi giorno e notte, ma invano. Ella giunse sino a Trapani dove perse la sua falce, suo simbolo di riferimento al grano. Esso, si racconta, divenne il promontorio falcato della città di Trapani. Dopo nove gioni e nove notti di ricerche inutili, Cerere invocò Giove per riavere la figlia. Ma Giove era fratello di Plutone e quindi decise di non intervenire. Allora Cerere, molto arrabbiata, provocò una grande siccità in Sicilia. Alla siccità seguì una grave carestia che fece morire tanta gente. A questo punto Giove decise di intervenire e costrinse Plutone a consegnare Proserpina alla madre, ma, poco prima, fece mangiare alla sua donna un chicco di melograno. Per gli antichi il melograno era il frutto della fedeltà coniugale perchè ogni chicco è come ogni giorno che passa che fa costruire l'amore.  Cerere abbracciò sua figlia ma, subito dopo, seppe del melograno. Tornò da Giove per ribellarsi ma Giove la costrinse ad un patto: Proserpina poteva rimanere otto mesi con la madre e i rimanenti quattro con Plutone. Gli otto mesi rappresentavano la stagione bella, che in Sicilia dura proprio otto mesi (da Aprile a Novembre) e i quattro mesi la stagione brutta (da Dicembre a Marzo).   

 

 


La  leggenda  di  Aretusa

La leggenda inizia nell'Arcadia, antica regione della Grecia. Qui nacque Alfeo, figlio di Oceano e di Teti.  Egli era un grande cacciatore, ma, legato tantissimo a questa sua passione, rifiutava le donne che, per la sua bellezza, spasimavano per lui. La dea dell'amore Venere non accettava questo comportamento di Alfeo. Un giorno,indignata per l'ennesimo comportamento del cacciatore nei confronti di una donna, chiamò suo figlio Cupido e gli chiese di intervenire in sogno ad Alfeo, che si accingeva a partire per Siracusa. Cupido accettò e, comparso in sogno ad Alfeo, gli disse che nella città siciliana avrebbe trovato non solo una grossa quantità di quaglie e di meravigliosi uccelli, ma anche una fantastica sorpresa.  Così l'indomani Alfeo partì per Siracusa sperando di trovarvi quanto sognato. Giunto cominciò a cacciare con il suo arco e la faretra. Mentre avanzava tra le foglie, pronto a colpire le prede, rimase sbigottito per quanto si presentò ai suoi occhi: vide una quaglia tutta d'oro, con piccole ali, un bellissimo becco e due occhi meravigliosi. Sempre più stupito ma felice lanciò la freccia contro di essa. La quaglia, colpita, precipitò al suolo ma si trasformò in una bellissima ninfa dentro una vasca d'argento e così bella da far cadere Alfeo in ginocchio per adorarla. La Ninfa, piena di vergogna, tentò di nascondere le sue rosee nudità e arrabbiata disse ad Alfeo che era Aretusa, ninfa di Artemide alla quale aveva fatto voto di castità, e quindi gli ordinò di andare via per non essere colpito dall'ira della dea.  Alfeo, che si era follemente innamorato di Aretusa, rifiutò di andar via preferendo l'ira della dea e accettando tutto ciò che potesse capitargli ma desiderando l'amore della ninfa alla quale prometteva l'amore sino all'ultimo respiro. Aretusa, pur turbata dalle parole di Alfeo, piene d'amore, continuò a coprirsi con le foglie, ma non volle disubbidire ad Artemide e cercò ancora di sfuggire al cacciatore.  Ma Alfeo fu più veloce di lei, la raggiunse, stava per prenderla, ma la dea Artemide, invocata ancor più dalla ninfa, la trasformò in una purissima fonte. Alfeo non si arrese e supplicò suo padre Oceano  di trasformarlo in fiume. Così avvenne e il fiume Alfeo si gettò nella fonte e potè esaudire il suo sogno di continuare ad amare Aretusa.

Tuttoggi esiste a Siracusa la fonte Aretusa, con bellissimi  papiri, palme, vasi di aloè, altre piante tropicali e tante anatre ed uccelli che la abitano ed è un luogo visitato da migliaia di turisti. 

Nel presente sito sono presenti due foto della fonte Aretusa. Nella seconda foto è visibile una statua con Aretusa che stava per essere presa da Alfeo, prima delle relative trasformazioni in fonte e fiume. (vedere sotto)

 

 


La leggenda  di  Dafni

La presente leggenda si sviluppò inizialmente lungo la valle del fiume Irminio, presso l'attuale Ragusa, dove abitava Dafni, figlio del Dio Ermes e della ninfa Dafnide.  A Dafni, che era un pastore, gli antichi attribuirono l'invenzione del canto bucolico con l'aiuto della zampogna. Egli si sposò con la ninfa Echemeide, figlia di Giunone. Con i suoi canti faceva sospirare tante fanciulle per lui che rifiutava, desiderando rimanere fedele alla moglie. Un giorno il re Zeno invitò Dafni ad una sua festa per recitare i suoi carmi. Ancora una volta Dafni fece fremere i cuori dei suoi ascoltatori e perfino della regina Climene, che si innamorò pazzamente del poeta. Ella tentò in tutti i modi, quella sera, di conquistare Dafni ma egli rifiutò decisamente. La regina, però, continuò a desiderarlo sempre di più. Un giorno, approfittando dell'assenza del marito, organizzò una nuova festa e fece preparare una grande quantità di vino, con l'aggiunta di foglie di alloro creando così un forte afrodisiaco e lo fece bere a Dafni il quale, alla fine, cedette nel letto della regina.  La suocera di Dafni, Giunone, piena d'ira, decise di punirlo e lo fece accecare. Il poeta cominciò a vagare per monti e valli, cantando il suo dolore fino a quando, disperato, si uccise buttandosi da una rupe. Gli dei, impietositi, lo trasformarono in rupe. Essa si trova nei pressi di Cefalù, dove il rumore delle onde sembrano tanti lamenti del mare e sono meta di tante rondini che, con il loro cinguettio dolcissimo, cantano la morte del poeta.      


La storia della Baronessa di Carini

Il fatto avvenne nell'autunno del 1502 a Carini. Qui abitava nel suo castello la baronessa di Carini. Ella,da quando si era sposata,per l'imposizione del padre, con il barone di Carini, il potentissimo Don Cesare Lanza, era molto malinconica e infelice. Il matrimonio,infatti, non si era dimostrato quanto ella aveva desiderato da adolescente. Suo marito la trascurava sempre di più. Eppure era molto bella e quindi non le mancavano gli ammiratori e spasimanti. Nella sua mente spesso si presentava Ludovico Vernagallo che, durante le funzioni religiose, la fissava e la seguiva in ogni suo movimento. Inoltre, specie negli ultimi tempi egli transitava per il castello. Eppure la baronessa pensava che il suo sogno di concedersi a Ludovico era impossibile. Tra l'altro Ludovico Vernagallo era nemico di suo padre per motivi di interesse. Una sera la baronessa era immersa in questi suoi rosei sogni quando si accorse che la porta della sua stanza era aperta e sulla soglia vi era un uomo!. Era Ludovico Vernagallo che la fissava già da alcuni minuti. Si avvicinò a lui piena di rabbia perchè si era permesso di osare tanto, ma, invece di colpirlo o rimproverarlo,  cadde tra le sue braccia. Iniziò così la breve e tumultuosa relazione tra la Baronessa di Carini e Ludovico Vernagallo. Essi potevano trasmettere i loro desideri o con missive frettolose o con incontri furtivi pieni di baci. L'ultimo loro incontro fu il più bello e infuocato, pieno di carezze e d'amore ubriacante. Ma dietro la porta erano presenti suo marito e il proprio padre che, pieni d'ira, uccisero i due amanti. 


Storia e leggenda dei Vespri Siciliani

Il fatto avvenne il 30 Marzo 1282 nella grande pianura dove attualmente vi è il cimitero di S.Orsola in Palermo.   Era il lunedì di Pasqua. In questo giorno i Palermitani si riunivano per mangiare all'aperto e divertirsi. Mentre si trascorrevano delle ore tranquille, un ufficiale francese, di nome Droetto, vide tra la folla una bella ragazza che passeggiava insieme al fidanzato e alla sua famiglia. L'ufficiale si avvicinò alla fanciulla e, con la scusa di perquisirla, le palpò il seno. La giovane cercò di divincolarsi e quindi svenne. Intervenne un giovane palermitano che, tolta all'ufficiale la spada, lo uccise. Tutti i palermitani cominciarono a scagliarsi contro i francesi lanciando pietre. Quindi, dopo essersi impadroniti delle loro armi, vennero in città gridando "morte ai francesi !". Ovunque, in Sicilia, tutti cominciarono a combattere i francesi e chi li difendeva, come la chiesa, il cui Papa Martino IV scomunicò i Siciliani.  In tutta l'isola nacquero leggende in relazione al fatto avvenuto. Anche le donne combatterono accanto ai loro uomini. Così a Messina Dina e Clarenza diedero l'allarme e combatterono per difendere la città dagli Angioini. Sinoggi vi sono nel famoso campanile del Duomo di Messina due statue di bronzo che battono le ore: esse raffigurano Dina e Clarenza.   In una leggenda si racconta che perfino la Madonna si schierò accanto al popolo e coprì una città con il suo mantello, difendendo i difensori. Fu dedicato alla Madonna il Santuario di Montalto. Si racconta anche una storia avvenuta nella città di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, dove alcuni anziani entrarono in una chiesa e uccisero sia il sacerdote, che stava celebrando la messa, nel momento in cui elevava il calice, sia tutti i presenti. La notte successiva, a mezzanotte, si sentirono suonare le campane della chiesa, tutta illuminata. Gli Angioini entrarono in essa, videro il Sacerdote vivo che celebrava il rito della consacrazione e, subito dopo, si aprì una voragine dentro la chiesa e in essa caddero i soldati mentre un furioso temporale, con forti tuoni e lampi, imperversava nella cittadina.  Un'ultima leggenda racconta che una figlia di Giovanni da Procida si era suicidata per non passare la notte tra le braccia di un Capitano Francese. Suo padre divenne pazzo e cominciò a girare per la Sicilia e preparando una sommossa contro i francesi.


La Leggenda di  Re  Artù

Si racconta che Re Artù era sul punto di morire e desiderava riparare la sua spada che si era spezzata. Voleva farla tornare come quando era nuova e lucente quando combatteva per imporre giustizia e virtù. Gli si presentò all'improvviso l'Arcangelo S.Michele che, desiderando esaudire l'ultimo desiderio del Re, lo portò per i cieli sino a depositarlo nelle cime dell'Etna dove il Re potè saldare, con la lava, la sua spada e, pieno di felicità, si addormentò in una grotta.  L'indomani, all'alba, si svegliò e vide sorgere il sole e, da quel luogo altissimo, rimase stupito per le bellezze naturali che si presentavano ai suoi occhi coi colori dei vari fiori presenti uniti ai colori azzurro-viola-verde del mare che si vedeva in lontananza. Re Artù supplicò il Signore affinchè potesse vivere più a lungo per godere ancora di tutte quelle meravigliose bellezze che non aveva mai visto prima. Così avvenne e Re Artù potè  continuare a vivere vegliando affinchè l'Etna non potesse distruggere Catania e la natura meravigliosa presente. Si racconta anche che il vulcano si sveglia solo quando Re Artù andava tra i bimbi inglesi per portar loro i fiori e i dolcissimi frutti della Sicilia.  Si racconta anche che Re Artù comparve in una leggenda durante l'impero di Enrico IV, famoso per le sue efferatezze e per quello che consentiva ai suoi fedeli protettori crudeli, come l'allora vescovo di Catania. Questi aveva un cavallo che una mattina si imbizzarrì durante una passeggiata. Seppur inseguito dai suoi custodi e si inerpicò sull'Etna dove scomparve alla vista. I custodi, tornati dal vescovo, dopo aver comunicato la fuga del cavallo, furono uccisi per decapitazione ed esposti al pubblico. Lo scudiero del vescovo, sfuggito alla pena, si recò sull'Etna in cerca del cavallo e gli sembrò di vederlo all'interno di un cratere.  All'improvviso, disperato per la sua sorte, vide davanti a lui un grande vecchio che lo confortò e lo portò dentro una grotta dove c'era Re Artù il quale disse allo scudiero che non faceva tornare il cavallo dal vescovo perchè costui si era comportato molto male con tutta la sua gente e che doveva venire personalmente il vescovo a prenderlo. Allo scudiero diede poi un mantello rosso e una borsa piena di denaro. Lo scudiero andò a raccontare quanto gli era capitato al vescovo che non credette alle sue parole e, nel momento di comandare ai suoi di ucciderlo al rogo, morì all'improvviso.


IL RACCONTO RIGUARDANTE  "Compare Alfio, Turiddu e le corna del diavolo"  

PROTAGONISTI:  Compare Alfio, sua moglie e Turiddu.

ESPOSIZIONE DEL RACCONTO:

Compare Alfio era un proprietario terriero. Ogni anno, per mietere e trebbiare il grano del suo terreno, si faceva aiutare da un operaio. Quell'anno ingaggiò un giovane molto forte e aitante, di nome Turiddu.  La moglie di compare Alfio si invaghì subito di Turiddu al quale fece subito capire le sue attenzioni. Turiddu dormiva in un pagliericcio vicino al letto dei suoi padroni. Durante la notte si tormentava nel sentire sospiri della moglie del compare Alfio e il cigolio del letto.    Un mattino Turiddu si accorse che compare Alfio era molto preoccupato e si comportava in modo molto strano. Chiese al suo padrone il motivo di quel suo comportamento. Compare Alfio gli raccontò che durante la notte aveva fatto un bruttissimo sogno. Gli era apparso il diavolo che aveva nel capo delle grossa corna che muggiva come un toro infuriato. Questo racconto fece sorgere nella mente di Turiddu il modo col quale poteva approfittare della moglie di compare Alfio, alla quale lo comunicò durante il giorno. La donna accettò e la notte successiva Turiddu si affumicò il viso e si legò nella fronte un grosso paio di corna di caprone e saltò sulla donna. I rumori, che la coppia faceva, fecero svegliare compare Alfio al quale si rivolse la moglie dicendogli che c'era il diavolo su di lei e implorando il marito di prenderlo per le corna poichè pesava molto. Compare Alfio si incoraggiò e riuscì ad afferrare le corna e le tirò in modo così violento che riuscì a strapparle al povero Turiddu che, intanto, aveva raggiunto il suo scopo e che quindi, furtivamente, si allontanò dal letto e tornò al suo giaciglio. L'indomani compare Alfio, molto contento per l'azione compiuta la notte precedente, si mise in testa le corna strappate e la moglie, ammirata, gli diceva che esse stavano molto bene nella sua testa.


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