LETTURE | Sicilia: sulla ferrovia che fu di Vittorini e Quasimodo, intreccio antico tra Siracusa e Ragusa
di Fabio Manenti
Prendo il treno, torno a casa. Lascio la
fretta rincorsa al nord. Indietro,
dentro, fino al grembo della Sicilia.
Questo viaggio si racconta dietro un
finestrino spolverato dal vento. C’è una
lapide in una stazione senza respiro del
sud: “Ferrovie dello Stato e Città di
Siracusa a Sebastiano Vittorini,
1883-1972, ferroviere letterato che fu
capostazione in questo edificio dove il
figlio Elio incontrò Rosa Quasimodo”.
Dove lo scrittore incontrò la sorella
del poeta. Qui giace la memoria di una
“fuitina” - con tanto di corse scalze
sui tetti e matrimonio riparatore - che
ha scritto pagine nuove della
letteratura italiana. Una “scappata” tra
due province, cavalcando un filo di
binari. Da un secolo
la littorina che collega Siracusa a
Ragusa ferma nelle stazioni di
ferrovieri che di cognome facevano
Vittorini, Quasimodo. La fuitina
imparentò ferrovieri e talentuosi figli
al seguito. Elio Vittorini, scrittore,
conobbe Salvatore Quasimodo, poeta, e lo
spinse a fare il poeta. Lo convinse a
coltivare i versi senza inseguire il
treno dei padri. Quella littorina ormai
ha un solo vagone; avanti e indietro due
volte al giorno. Non di più, non è
necessario. Eppure conserva il fascino
della fuliggine vecchia perché scorre su
una linea che è un’impresa
ingegneristica di un’epoca fa; la via
più sincera per penetrare
i luoghi più isolati
dell’isola. Le province di Ragusa
e Siracusa sono province “babbe”.
Significa “stupide” perché a lungo
rimaste in disparte, non asfissiate
dalla piovra dei clan. I resti stanchi
di montagne antiche ne hanno custodito
l’intimità poco maliziosa e hanno
torturato il sonno di ingegneri
giolittiani. Dovettero inventare
gallerie elicoidali, pendenze ai limiti
del possibile e piattaforme girevoli per
permettere il miracolo della ferrovia,
in un’opera che è osmosi con la pietra.
Nella sottile monotonia della
monorotaia, ferrovieri annoiati intenti
a leggere letteratura. Sebastiano
Vittorini, di origine bolognese, era uno
di loro. Nel 1908, quando l’umanità
aspettava il Titanic, lui fischiava ai
vagoni nella città della moglie:
Siracusa. Un capotreno rispettato,
colto. A Siracusa nacque Elio, il figlio
che sarà narratore baffuto, maestro del
neorealismo e dell’inchiesta. Il giovane
Vittorini vive l’adolescenza che il
padre potrà offrirgli, "in piccole
stazioni ferroviarie con reti metalliche
alle finestre e il deserto intorno."
Stazioni che scappano dalla città. Come
Elio, che da ragazzo evase dalla
famiglia e al quarto tentativo non tornò
indietro. La
Siracusa che da giovane lo
impugnava era un villaggio barbaro
accampato sulla Siracusa ellenica di
millenni prima. Un milione e duecento
mila gli abitanti antichi; Cicerone la
definì “la più grande città greca, e la
più bella”. Siracusa è la città
dell’orecchio di Dioniso, dove gli
schiavi venivano sfiniti e spiati;
dell’Anfiteatro Romano, a volte
insanguinato dai gladiatori, altre
riempito d’acqua come una bacinella per
inscenare battaglie navali; del Teatro
Greco dove gli dei non sono mai andati
via. La terra che Archimede proteggeva
con specchi colossali e che a sua volta
nascose un Caravaggio fuggiasco e i
cristiani perseguitati nelle sue
catacombe. Sottoterra, come fa il “treno
degli scrittori”. Ma non da subito.
Quando la littorina abbandona Siracusa,
si muove su binari rilassati, mentre i
vetri del vagone inspessiscono il
calore. Avola, la Cassibile della pace
ritrovata con gli alleati e la Noto
rigonfia di barocco, Rosolini, Ispica,
Pozzallo, Sampieri. E
Scicli. Elio
Vittorini visse qui, chilometro
ottantatré, provincia di Ragusa. Si
riempì gli occhi con questa città che
sotterranea non è, ma è come se lo
fosse. Incavata tra colline aspre e
avvinghiate tra loro; una trama
inestricabile di vicoli che sembrano
anfratti e scalinate che sono cascate di
gradini. I palazzi pigri
dell’aristocrazia si appoggiano uno
sull’altro. “Forse è la più bella di
tutte le città del mondo. E la gente è
contenta nelle città che sono belle”:
scrisse Vittorini nella Milano dei tram,
poco dopo aver detto no alla
pubblicazione del Gattopardo del
Principe di Lampedusa. Sussurrino lo
fece per invidia. La fermata dura poco.
La littorina, vecchia signora, pare
avere la fretta delle ragazze. Il
capotreno - avrà poco più di vent’anni -
s’illanguidisce per due giovani
passeggere tedesche: con la scusa del
biglietto a bordo, sfodera battute che
in Germania apprezzano senza capire.
Niente a che vedere con i modi che ebbe
il sig. Quasimodo, capostazione,
tratteggiati con la penna dal figlio
Salvatore. “Il tuo berretto di sole
andava su e giù, nel poco spazio che
sempre ti hanno dato.” Parole che
respirano nella casa natia dello
scrittore, a Modica,
tappa successiva. Al primo piano di via
Posterla, la famiglia Quasimòdo - ma il
poeta non sopportava l’accento originale
- aveva preso in affitto la casa da una
celebrata dinastia: Campailla. Tommaso,
il filosofo seicentesco che disarmò la
sifilide con le botti e i vapori del
mercurio, visse nella stessa viuzza del
premio Nobel, separati da qualche metro
e un paio di secoli. E’ la città della
cioccolata: un irripetibile paradosso
spagnolo ha voluto che la ricetta del
cioccolato azteco, scomparsa in Sud
America, sia perpetuata qui. L’ultimo
tratto della ferrovia è un atto di fede.
Undicimila metri, una trentina di
minuti. L’odore della nafta sbatte
contro le rotaie e il treno, testardo,
inizia a sfondare la pietra, a
contorcersi su se stesso risalendo
spirali sottoterra. E’ come se prima di
ogni nuova, trafelata galleria, dai
finestrini prendesse boccate d’ossigeno
per poi proseguire in apnea. D’un tratto
il vagone emerge fino a decollare: si
aggrappa ai bordi di un alto colle e dai
finestrini non si vede che vuoto. E’ il
momento in cui sorvola Ragusa Ibla,
città-presepe. L’immagine impressiona e
resta impressa. La stazione non accoglie
i passeggeri, li aspetta. Si chiama
Ragusa, al
singolare, ma le città sono due, a volte
rivali. Ragusa, propriamente detta, è la
secondogenita. Gonfiò il petto e i
confini nel periodo fascista: la piazza
principale, prima chiamata Impero e poi
Libertà, è scandita da aquile rigide e
dalla scritta “Casa del Combattente”;
l’ospedale visto dall’alto ha la forma
della M di Mussolini. La parte vecchia
in siciliano si chiama ‘Iusu’, significa
‘che sta sotto’. In italiano è ‘Ibla’,
dal nome di una dea persa nella storia
che suggeriva sogni premonitori a chi
passava di qui. Ma di nomi ormai sepolti
Ragusa Ibla deve averne avuti tanti come
le genti che l’hanno posseduta. Tante,
tranne i greci: i siculi resistettero ad
ateniesi, siracusani, gelesi e
agrigentini. Mai vinta. A sconfiggerla
fino a raderla al suolo, nel 1693, il
terremoto. Sbriciolata, fu ricostruita
rivestita di barocco. E oggi è un
gioiello che soffre, tremendamente, la
malinconia. Di giorno è la
città-commissariato di Montalbano ma
dopo il tramonto, a vederla da lontano,
Ibla parrebbe una costellazione poggiata
sulla terra, un buio scandito da
lucciole ferme. Forse è per questo che
Tornatore ha voluto girare il suo “Uomo
delle stelle” qui, dove la notte mormora
coi gelsomini, innamorata. L’amore tra
Rosa ed Elio durò più di una notte, più
della loro fuitina. Eppure non fu
eterno: la maledizione degli scrittori
pretende che nient’altro duri al di
fuori dei versi. Dopo due figli la
famiglia Vittorini-Quasimodo si sciolse.
Questa terra, però, continuò a
richiamare entrambi. Nel ’68, a pochi
giorni dall’aldilà, il poeta fece
ritorno: un ultimo, inconsapevole,
abbraccio. Lo scrittore tornò a casa con
genio e fantasia per le sue
Conversazioni in Sicilia dopo gli
“astratti furori” di un inverno degli
anni ’30. Tornare provoca una tensione
ancestrale; credo sia stata anche la
loro. Sbuffo impaziente su questo treno
che ha attraversato terra ocra e storie
fuggite. L’ultima galleria.
“Nel buio io non so.
Ma so che sono tornato a casa.”