Sabina Siniscalchi*
S<?-- Capolettera -->i celebra da almeno venti anni, ogni 16
ottobre, la Giornata mondiale di lotta alla povertà voluta dall'Onu.
Sicuramente è una "celebrazione" utile, soprattutto dopo l'11
settembre che ha fatto sparire la povertà dall'agenda politica
internazionale, rimpiazzandola con la lotta al terrorismo e la guerra.
Ma la povertà non è sparita dalla faccia del pianeta. I dati sono
impressionanti: più di un terzo della popolazione mondiale vive in
condizioni di povertà. La World Bank ha dovuto escogitare un nuovo
strumento di misurazione: vive in povertà chi ha un reddito inferiore ai
2 dollari al giorno, in totale 2 miliardi e 300 milioni di persone.
Disporre di un reddito così basso significa che non si ci può nutrire
adeguatamente, che non si possono mandare i figli a scuola, che non ci si
cura quando si è ammalati, che si lavora, a volte in modo massacrante, ma
non si guadagna una paga "decente", per usare una suggestiva
definizione dell'OIL, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Come è noto la maggior parte dei poveri vive in Africa, ma ce ne sono
tanti anche in America Latina e in Asia, quasi tutti in India, a dispetto
dello strepitoso tasso di crescita di questo gigante economico.
Come se non bastasse, i Rapporti internazionali ci dicono che gli indici
di sviluppo umano: speranza di vita, tasso di istruzione, mortalità
infantile sono peggiorati in molti paesi dell'Est Europa.
La povertà è in agguato anche nei paesi ricchi. In Italia, proprio in
questi giorni sono usciti due importanti rapporti, quello dell'Istat che
attesta che i poveri in Italia sono quasi 8 milioni, il 13% delle famiglie
e quello della Caritas: che segnala che i poveri italiani sono pensionati,
donne sole con figli e immigrati.
Dunque la povertà non è sparita con la crescita della ricchezza, così
come la fame non è scomparsa nonostante l'aumento della produzione
mondiale di cibo.
Per i poveri la globalizzazione non ha funzionato, anzi si potrebbe dire
che la loro condizione è peggiorata, perché sono sempre più esclusi dai
circuiti economici e produttivi e perché gli aiuti internazionali, così
come gli investimenti sociali, sono diminuiti quasi ovunque.
L'ideologia della globalizzazione, infatti, ritiene che lo sviluppo e il
benessere arrivino automaticamente dal mercato.
Da tempo l'Onu e la società civile hanno percepito i rischi di questa
visione, hanno capito che è folle affidare ai meccanismi del mercato la
sopravvivenza delle persone e i diritti dei popoli.
L'ultima carta giocata dall'Onu è quella degli Obiettivi del Millennio
che riassumono gli impegni sottoscritti solennemente dai Governi, nel
corso dei vertici mondiali sullo sviluppo.
Per raggiungere gli Obiettivi del Millennio i Governi dovrebbero investire
risorse nella lotta alla povertà, nel garantire cibo e acqua potabile,
nell'istruzione, nella salute e così via. I paesi più ricchi, inoltre,
dovrebbero aiutare i paesi del Sud in questa impresa, aumentando i fondi
della cooperazione, risolvendo il problema del debito e abolendo le
distorsioni commerciali che penalizzano le economie più deboli.
Tutto questo entro l'anno 2015.
Sugli Obiettivi del Millennio si sono mobilitati, assieme all'Onu,
movimenti, associazioni, amministrazioni locali di tutti i paesi del
mondo.
Ma i Governi, incluso quello italiano, fanno orecchie da mercante.
Non ci sono le risorse, dicono. La scusa ormai non tiene più: le risorse
ci sono eccome, ma vengono assorbite dalla guerra.
Un miliardo e duecento milioni di dollari l'anno, calcola il SIPRI
(l'Istituto di Ricerca di Stoccolma) spesi in armi e in eserciti.
Siamo al massimo storico, non si spendeva così tanto neanche durante la
Guerra Fredda, neppure in piena corsa agli armamenti.
Per gli Obiettivi del Millennio, per sradicare la povertà basterebbe
molto meno, circa il 10 per cento di questa somma. Come si spiega questa
situazione? Com'è che i Governi dei paesi ricchi vanno facendo grandi
promesse al G8 o all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma poi non
aprono i cordoni della borsa? Una spiegazione potrebbe essere questa: i
poveri non sono una lobby, l'industria bellica sì.
Il nostro impegno per il futuro potrebbe essere proprio questo: rimettere
la lotta alla povertà nell'agenda politica e smascherare chi non mantiene
le promesse.
*Senatrice Prc-Se
17/10/2007
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