Una parte dei messaggi sarebbe
stata nascosta per ragioni diplomatiche
Fatima, c'è un «quarto segreto» da
rivelare
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La pubblicazione della notizia non piacque ad
Antonio Socci, che accusò di «dietrologia», di ricerca di scoop
inesistenti, coloro che la pubblicarono, convinto che tutto ciò che c'era
da sapere su Fatima fosse ormai di dominio pubblico. Per lui, non c'era
più alcun «segreto», dopo la dichiarazione del cardinal Sodano, il 13
maggio del 2000, e dopo la pubblicazione del testo manoscritto, con un
commento del prefetto dell'ex Sant'Uffizio, il 26 giugno dello stesso
anno. Ma, poi, il giornalista e scrittore toscano ha cambiato parere e
pubblica ora un libro, in uscita domani («Il quarto segreto di Fatima»,
Rizzoli, pp. 252, e 17), che inizia ritrattando, con indubbia onestà, la
convinzione che ogni parola pronunciata dalla Apparsa nel 1917 sia stata
ormai rivelata dalla Chiesa. Dopo avere respinto la pubblicistica,
soprattutto di parte lefebvriana o sedevacantista, che sospettava il
Vaticano di non avere svelato i veri contenuti del messaggio, Socci ha
deciso di esaminare le ragioni di chi diffidava. E ha finito per
convincersi che qualcosa di molto importante ci è stato celato.
Che dire di simili ipotesi? Per aiutare a
capire, vorremmo dare una testimonianza che va al di là della
dimensione personale, ma coinvolge in pieno inchieste come questa di
Socci. Succede infatti che, da molti anni, innumerevoli pubblicazioni, in
molte lingue, si dedicano all'esegesi delle parole su Fatima pronunciate
nel 1984 da Joseph Ratzinger (che, a mia precisa domanda, disse di avere
letto il terzo segreto) e da Giovanni Paolo II dieci anni dopo. In
entrambi i casi, quelle parole sono state pronunciate nelle interviste
raccolte e pubblicate dal cronista che qui scrive. Anche Antonio Socci dà
largo spazio all'analisi, spinta sino alle minuzie, di «Rapporto sulla
fede» e di «Varcare la soglia della Speranza». Giunge ad esempio sino a
trarre conseguenze importanti da un «dunque» che appariva nella sintesi
dell'intervista a Ratzinger che anticipai sul mensile «Jesus» e che non
apparve nel libro che uscì alcuni mesi dopo. In altre occasioni,
disquisisce sulle possibili letture di un aggettivo o sulla intonazione di
una frase.
Ma anche i riferimenti a Fatima sparsi nel
colloquio con Giovanni Paolo II sono scrutati con la lente, per
individuarvi eventuali significati sottaciuti, quasi in codice. Come
dicevo, una simile esegesi di quei libri è stata (ed è tuttora) praticata
da molti, nel mondo intero, talvolta con un accanimento maniacale. Colgo,
dunque, l'occasione permettere in guardia da simili analisi, che non sono
giustificate dalla genesi di quelle interviste, soprattutto quella con il
futuro Benedetto XVI.
«Rapporto sulla fede» nacque da oltre venti ore di
registrazione. Mi fu data, poi, ogni libertà redazionale; con il solo,
ovvio impegno, di sottoporre al cardinale il manoscritto che avrei
ricavato dal lunghissimo colloquio. Il testo fu approvato senza quasi
ritocchi, così come erano stati approvati dallo stesso interessato i
preannunci su «Jesus». Il prefetto della Fede volle presentare di persona
il libro in una tumultuosa conferenza stampa e volle, bontà sua,
ringraziarmi pubblicamente per la «fedeltà» con cui avevo riferito il suo
pensiero. Una «fedeltà», però, che non mi aveva impedito di impastare con
energia il voluminoso materiale, dandogli forma in uno schema, anche con
aggiunte e ritocchi tratti da pubblicazioni e documenti precedenti del
cardinale. Un editing in profondità, dunque, il cui risultato peraltro
soddisfece il mio interlocutore, che in quelle pagine disse sempre, in
ogni sede, di riconoscersi.
Qualcosa del genere, anche se in modo più
discreto, avvenne per il libro con Giovanni Paolo II. Il quale rispose
alle mie 35 domande scrivendo a mano, in polacco. Il manoscritto mi fu
consegnato in una traduzione italiana con tali limiti che mi occorse un
paio di mesi per dargli una forma passabile, talvolta chiedendo lumi
all'autore, avendo come intermediario il portavoce Navarro Valls. Pure
qui, dunque, ha avuto il suo posto (e non solo sulla forma letteraria) un
editing robusto, anche se il risultato finale — ancora una volta — fu
approvato senza riserve, al punto che Papa Wojtyla a lungo regalò copie
del libro ai suoi ospiti e lo citò con convinzione in sue pubblicazioni
successive.
Che Socci, dunque, e tutti gli altri indagatori
dei rapporti tra gerarchia e Fatima ne siano finalmente consapevoli:
nelle loro ricostruzioni, molte delle fonti — a cominciare dalle due,
giudicate da essi essenziali, di Ratzinger e di Wojtyla — appartengono a
un genere letterario dove l'esegesi letteralista non è ammissibile. E dove
un sostantivo, un aggettivo, un avverbio risalgono spesso a scelte del
redattore e non del protagonista, anche se questo ha poi approvato.
Improbabile, dunque, magari ingannevole — seppure in ottima fede — la
certosina fatica di Socci? Deliramenta, i suoi, come appaiono anche a lui
certi estremismi dei «fatimiti»? No, non ci pare che sia così. Pur con
forzature, o ingenuità, derivate dall'affastellamento delle ipotesi più
diverse, queste pagine possono rendere pensosi. E vanno comprese — almeno
in una prospettiva di fede — le loro intenzioni: il desiderio (si direbbe,
talvolta, l'affanno) di sapere quali siano davvero gli avvertimenti che il
cielo avrebbe voluto farci giungere. E la preoccupazione di risparmiare
alla Chiesa conseguenze devastanti, qualora la «censura» ipotizzata del
testo consegnato da suor Lucia fosse impugnata da avversari
malevoli.
Vittorio Messori 21 novembre
2006 |
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