AUMENTANO DI GIORNO IN GIORNO LE SITUAZIONI DEL “MOBBING”.
PARERI DELLO PSICOLOGO E DELL’AVVOCATO.
CONSIDERAZIONI
DELL’AUTORE DEL SITO
Dal
sito) www.palermoweb.com/psicologia/salute1.asp?ID=77 -
22k
-dott. Daniele
Russo-
E’ incredibile
il crescente aumento di problematiche psicologiche rilevabili dalla
relazionalità che si instaura nei luoghi di lavoro. Il mobbing (che significa
letteralmente ‘assalire in gruppo e
minacciosamente una singola persona’) fenomeno oramai conosciuto dalla
stragrande maggioranza degli individui che, secondo le più recenti stime
europee, coinvolge il 6% dei lavoratori Italiani che subiscono pressioni e
persecuzioni nei posti di lavoro
tra i più svariati (beni e servizi 38%, pubblica amministrazione 22%, scuola ed
università 12%, ospedali 8%, commercio 3%, agricoltura, 2%) soprattutto
dell’area pubblica, non è pensabile semplicemente come l'esclusione di un
lavoratore operata dal gruppo di cui fa parte, bensì, si configura come veri,
sottili, crudeli, continuativi e sconcertanti atti, più o meno velati
(allusioni, derisioni, ecc.) e ostilmente adoperati dal leader verso il
subalterno (bossing) e/o dai colleghi di lavoro verso una vittima designata.
Chiaramente, l’impossibilità per il singolo di difendersi, reagire o lasciare il
posto di lavoro genererà in lui un senso di smarrimento, spossatezza, impotenza
e terrore psicologico tali che si svilupperanno inevitabilmente disagi che
invaderanno anche le altre sfere della vita lontane dalle ore di lavoro. E’
dimostrato, infatti, che a seguito degli abusi subiti sul posto di lavoro, le
persone sviluppano sintomi
psicopatologici riconducibili alla sindrome post-traumatica da stress (ad
esempio, disturbi del sonno, aggressività con le persone care, ipocondria, asocialità, depressione,
ansia e attacchi di panico) la cui remissione consta di notevole fatica. E’
soprattutto l’impotenza derivata dal fatto di non potere reagire e andarsene che
fa stare male. L’assessment psicodiagnostico del mobbing richiede allo
specialista psicologo accuratezza osservativa, strumentazione adeguata e
un’attitudine clinica non indifferente, proprio per riuscire a discriminare la semplice e sporadica
conflittualità che normalmente può aversi nel luogo di lavoro, da azioni di attacco persecutorio
propriamente detto. Si può evidenziare un agito di mobbing già nella semplice
emarginazione o diffusione di
maldicenze, oppure, nelle continue critiche e nella sistematica persecuzione o,
ancora peggio, nell’assegnazione di compiti inadeguati per il ruolo che si
ricopre proprio allo scopo di umiliare e sottomettere. I persecutori, certi
dell’invincibilità data dalla situazione,
non disdegnano di adoperare anche sabotaggi e azioni illegali. Lo scopo
del mobbing è quello di eliminare una persona che è considerata scomoda,
ribelle, con potenzialità maggiori rispetto agli altri, non facilmente
sottomettibile a canoni condivisi, pericolosa per la propria carriera. Ma molto
spesso, soprattutto nella nostra realtà siciliana, le azioni di persecuzione,
nascono perché il lavoratore vuole lavorare al meglio e questo, pone gli altri,
nella condizione di dovere fare traballare un’equilibrio che si basa sul
presupposto non verbale che il furbo è
proprio colui che non
lavorando si ‘frega’ lo stipendio. La persona vittima di mobbing, quindi, viene
distrutta psicologicamente rendendole invivibile e insopportabile il contesto
lavorativo allo scopo che la crisi la conduca allo spontaneo licenziamento.
L’intervento psicologico è necessario laddove la persona vittima di molestie sul
lavoro percepisce in sé un disagio elevato, proprio per ripristinare le risorse
necessarie per fronteggiare l’abuso. Roberto Vaccani, specialista in
comportamento organizzativo alla Bocconi, sostiene che le cause devono anche
essere rintracciate nell’inadeguatezza dei tradizionali modelli di leadership e
di gestione del gruppo di lavoro da parte di capi-manager che utilizzano
strategie che spengono le naturali spinte all’assertività, alla creatività e
alla crescita professionale di
molti lavoratori. Un cattivo capo è responsabile del clima di lavoro e
dello stress che si produce all’interno del gruppo. A questo proposito, il
collega americano Stephen Karpman ha evidenziato nei luoghi di lavoro
l’esistenza di una relazionalità definita ‘triangolazione drammatica’ dove,
all’apparente comunicazione fredda e distaccata in realtà si cela un tipo di
comunicazione fondata su ruoli stereotipati di vittima-persecutore-salvatore.
Dietro le apparenze, però, il salvatore sente il bisogno di affermare in modo
indiretto la propria superiorità su tutti, la vittima ha problemi con la propria
autonomia e indipendenza e chi perseguita, invece, ha qualcosa di irrisolto dal
punto di vista psichico poichè approfitta della situazione per scaricare le
proprie frustrazioni sugli altri. Nello specifico del rapporto tra capo e
subalterno, si rileva come la frustrazione derivante da un rapporto inadeguato
frena l’energia creativa e l’entusiasmo del lavorare. Questi sentimenti sono
derivati dalla badboss blues un tipo di disagio come sensazione di angoscia e
ossessione dovuta a un rapporto difficile con il capo. Oltre all’abbassamento
dell’autostima e alla spossatezza si rilevano pensieri ossessivi su come
riuscire a comportarsi nel fronteggiare il lavoro e il nervosismo e
l’intrattabilità si ripercuote nel rapporto con il partner. Naturalmente, la
vittima del mobbing, deve riuscire a contrastare l’aggressione non solo del capo
ma anche di un clima devastante e le crisi personali e invalidità psicologica
acute e, proprio per questa evidenza, come malattia professionale e/o infortunio
sul lavoro è bene considerare, oltre all’intervento medico e psicologico, anche
la prestazione legale. Ancora oggi spesso si tende a sottovalutarne il forte
impatto su chi lo subisce, infatti, molti medici di base, che spesso sono i
primi operatori a cui la vittima si rivolge, sottovalutano il fenomeno
presupponendo che le azioni riferite siano semplici situazioni di disagio
personale o di incompatibilità di carattere tra i colleghi di lavoro o altro.
Purtroppo, invece, non è così viste le numerose evidenze che ho riscontrato sia
dalla pratica che dalle testimonianze giunte all’indirizzo di posta elettronica
di ‘psicologia e dintorni’. Il mobbing e altri fenomeni di abuso si combattono
con l’informazione resa accessibile a tutti, con un intervento psicologico di
primo livello e con l’intervento legale laddove il lavoratore è impossibilitato
a lasciare il lavoro. Proprio per queste considerazioni, ho chiesto all’avvocato
Rosaria Lima di evidenziarci la prospettiva e il percorso legale certo di fare
cosa gradita ai numerosi navigatori del nostro sito.
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Il punto di
vista legale
-avv. Rosaria
Lima-
Il mobbing è un
fenomeno non ancora disciplinato in modo specifico né dalla nostra legislazione
né dalla contrattazione collettiva;
tuttavia la giurisprudenza, di fronte alle sempre maggiori richieste di
risarcimento di danni da mobbing nei giudizi di lavoro, ha progressivamente
elaborato una definizione a
fattispecie in esame. Per la giurisprudenza il mobbing, consiste in atti e
comportamenti (violenza, persecuzione psicologica), svolti con carattere
sistematico e duraturo, che mirano a danneggiare il lavoratore al fine di
estrometterlo dal lavoro; esso può caratterizzarsi per la presenza di atti e di
comportamenti di per sé legittimi, ovvero, come è ben possibile, attraverso una
condotta molesta e vessatoria che travalichi i confini meramente civilistici e
giuslavoristici integrando di ipotesi di reato.
In primo luogo
occorre premettere che non tutte le vicende che accadono nel mondo del lavoro
isolatamente considerate, sono sempre così significative da meritare particolare
rilievo: il fatto grave che le trasforma in mobbing è la loro reiterazione per un
arco temporale sufficientemente lungo ed, al contempo, la loro riconducibilità
ad una vera e propria strategia comportamentale premeditata, tesa a colpire
delle vittime ben identificate con l’intento di distruggerle con conseguente
allontanamento dal luogo di lavoro.
Quindi i meri conflitti temporanei, occasionali e momentanei privi dei
caratteri di frequenza, durata e sistematicità dovranno considerarsi come
comportamenti che normalmente possono verificarsi all’interno dell’ambiente
lavorativo. Nella stessa direzione la Corte di Cassazione, in una sua recente
sentenza (n.4774 del 2006), ha ribadito che la prova del danno subito dal
lavoratore, dalla condotta vessatoria posta in essere dal (nel caso de quo)
datore di lavoro, può essere fornita anche dalla sistematicità e dalla durata
della stessa.
E’ altresì
pacifico in giurisprudenza che le persecuzioni psicologiche vengono distinte in
relazione ai soggetti offensori che le pongono in essere, qualificando come
<< verticale>> il mobbing posto in essere da un superiore gerarchico
della vittima o dallo stesso datore di lavoro; <<orizzontale>>,
invece quello perpetrato da uno o più colleghi. Non è invece configurabile un
mobbing dal basso verso l’alto, vale a dire posto in essere da un
gruppo
di lavoratori
nei confronti di un loro superiore gerarchico.
Si è, quindi,
in presenza del fenomeno in esame ogni qualvolta sia accertato che il lavoratore
abbia subito una vera e propria
persecuzione psicologica, attuata con comportamenti ostili e vessatori
tendenti alla mortificazione e/o allontanamento dello stesso dal luogo di lavoro
tali da far insorgere
nel lavoratore
(mobbizzato) malattie psicopatiche e disagio psicologico; in tali casi il dipendente potrà agire in giudizio
nei confronti del datore di lavoro per ottenere il risarcimento dei danni
biologici, esistenziali e morali che siano conseguenza della condotta di
mobbing, sempre che lo stesso sia in grado di provare tanto l’esistenza delle
vessazioni subite quanto l’entità dei danni subiti.
In capo al
datore di lavoro, infatti, la giurisprudenza riconosce una duplice forma di
responsabilità: diretta nel mobbing verticale, -quando, cioè, l’autore sia egli
stesso; indiretta nel mobbing orizzontale ma anche in quello verticale,
allorquando la condotta vessatoria sia messa in atto, rispettivamente, dal
superiore non datore di lavoro.
Gli articoli
sui quali la giurisprudenza fonda tale responsabilità, in assenza di una
specifica disciplina legislativa, sono, da un lato, l’art. 2087 del C.C. che
impone all’imprenditore di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che
sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro; dall’altro, i principi di cui agli articoli 2 e 3 della
Carta Costituzionale con particolare riguardo alla salvaguardia, sul luogo di
lavoro, della dignità e dei diritti fondamentali del
lavoratore.
Il mobbing può essere posto in essere anche
attraverso la dequalificazione o il demansionamento del lavoratore; in tal caso
la giurisprudenza richiama l’art. 2013 del C.C. che mira a tutelare il diritto
del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto.
Ma anche in tal
caso, ai fini del risarcimento del danno, in caso di demansionamento la
Cassazione a Sez. Unite 14 marzo n. 6572/2006), ha confermato il principio
secondo il quale non è sufficiente
per integrare la condotta di mobbing un mero allontanamento personale a cui fa
seguito un atteggiamento di freddezza tra il datore di lavoro ed il dipendente,
poiché sarà sempre necessario dimostrare di essere stato vittima di una
vessazione psicologica sistematica ripetuta per un’apprezzabile periodo di
tempo.
Inoltre la
Corte ha infatti affermato che il riconoscimento del diritto del lavoratore al
risarcimento di qualunque danno lamentato (professionale, biologico o
esistenziale) non ricorre automaticamente in tutti i casi di demansionamento: le
conseguenze lesive che il lavoratore ha subito dall’inadempimento del datore di
lavoro devono essere specificatamente allegate e puntualmente provate dal
lavoratore.
Quindi in caso
nel caso di danno biologico sarà necessaria l’esistenza di una lesione
dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile; per il danno esistenziale
il lavoratore, stante la natura immateriale dello stesso, potrà ricorrere a
tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento e, quindi, anche alle prove per
presunzioni: vale a dire il procedimento logico per cui dalla complessiva
valutazione di elementi allegati (gravità, durata, pubblicità della
dequalificazione, frustrazione di ragionevole prospettiva di carriera, effetti
negativi sulle abitudini di vita) si possa risalire, coerentemente, facendo
ricorso alle nozioni generali derivanti dall’esperienza, al fatto ignoto cioè
l’esistenza del danno.
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DIRETTA CONSIDERAZIONE DELL’AUTORE DEL SITO
Al Ministro della
Pubblica Istruzione
OGGETTO: Ferie non concesse al Personale della Scuola per abuso di autorità dei Presidi
Vi scrive il Prof.Sampognaro Giuseppe, responsabile del Sito Culturale
http://www.sampognaro.it/ . Vuole
informarVi su un fatto che da alcuni mesi sta sconvolgendo la vita di tante
persone, impiegate o operaie, quasi tutte dipendenti del Pubblico Impiego ed
inserite nelle Amministrazioni Scolastiche. Queste persone, che non hanno
usufruito di giorni di ferie e che, comunque, possono godere, in base al
Contratto stipulato con le Pubbliche Amministrazioni, secondo le leggi vigenti,
chiedono al loro datore di lavoro, Preside in particolare, che possano usufruire
di giorni di ferie nei periodi di interruzione delle attività didattiche, quali
quelle presenti nel mese di Dicembre e Gennaio, corrispondenti alle Festività
Natalizie, e primaverili, corrispondenti alle Festività Pasquali. Quasi sempre i Dirigenti Scolastici non
accolgono le richieste dei loro dipendenti preferendo pagare
successivamente,come già è sempre avvenuto, i giorni di ferie non godute con il
versamento di centinaia di migliaia
di euro facendo così accrescere il debito dello Stato anche in questo periodo
quando si chiedono tanti sacrifici ai cittadini e si sta combattendo la evasione
fiscale per aumentare le entrate dello Stato. Il comportamento di questi
Dirigenti si può considerare molto ambiguo e strano causato, quasi sempre, da
abuso di autorità e disprezzo verso i propri dipendenti che può anche
configurarsi come una situazione di MOBBING. Ciò fa accrescere sempre di più la
diffidenza e l’odio dei dipendenti nei confronti del loro Datore di lavoro.
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FATTO INCRESCIOSO CAPITATO ALL’AUTORE DEL SITO CAUSA IL MOBBING
Purtroppo molti Presidi mancano
di una preparazione psico-pedagogica, e svolgono il loro operato con un meschino
strapotere che li porta ad un mancato dialogo con le altre componenti
scolastiche (Docenti,Personale ATA,Alunni e Genitori) creando un continuo
attrito con le stesse al punto che spesso si constatano situazioni di mobbing.
Anche il sottoscritto ha subito, prima di andare in pensione, queste vessazioni
al punto che ha deciso, a malincuore, di abbandonare il servizio dopo 35 anni,
anziché 40
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